Confisca obbligatoria per il prodotto, il prezzo, il profitto o l'oggetto di reato di usurpazione di titolo di proprietà industriale
L'art. 474 bis c.p., introdotto dall'art. 15 comma 1 lett. c, l. 23 luglio 2009, n. 99, si inserisce nel quadro delle misure adottate dal legislatore per rafforzare la tutela penale dei diritti di proprietà industriale.
Si tratta, a tutti gli effetti, di un potenziamento della misura della confisca, che va a colpire "le cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono l’oggetto, il prodotto, il prezzo o il profitto, a chiunque appartenenti", anche nella forma della confisca "per equivalente".
La giurisprudenza di legittimità ha qualificato tale confisca obbligatoria quale misura ablativa utilizzata in funzione «general-preventiva dissuasiva». A differenza di quella disciplinata dall'art. 240 c.p., infatti, tale tipologia di misura si caratterizza per i connotati repressivi proprî delle pene accessorie che, pertanto, prescindono dalla pericolosità intrinseca della cosa.
Come anticipato, tale disposizione stabilisce la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere i reati di cui agli artt. 473 (Contraffazione, alterazione o uso di marchi o segni distintivi ovvero di brevetti, modelli e disegni) e 474 (Introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi) c.p., e delle cose che ne sono l'oggetto, il prodotto, il prezzo o il profitto. Tale disposizione si applica anche, per espresso richiamo, per i reati di cui agli artt. 517 ter (Fabbricazione e commercio di beni realizzati usurpando titoli di proprietà industriale) e 517 quater (Contraffazione di indicazioni geografiche o denominazioni di origine dei prodotti agroalimentari) c.p.
La misura consegue obbligatoriamente alla pronuncia di una sentenza di condanna o, ai sensi dell'art. 474 bis comma 4 c.p., di applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p.
Nel caso in commento il ricorso alla Suprema Corte muoveva da una confisca ex art. 474 bis c.p. disposta unitamente a decreto di archiviazione per prescrizione di un procedimento in cui, dopo una serie di modificazioni dell’imputazione, in ultima battuta, veniva contestato al prevenuto il reato di usurpazione di titoli di proprietà intellettuale di cui all’art. 517 ter c.p.
La Corte di Cassazione ha ritenuto legittima la confisca pur in assenza di una pronuncia che comportasse l'accertamento della responsabilità, in quanto obbligatoria ai sensi dell'art. 474 bis c.p., richiamato dal comma 3 dell’art. 517 ter c.p., e, pertanto, rientrante nel solco giurisprudenziale tracciato precedentemente dalla stessa Suprema Corte che legittima la confisca pur in assenza di una pronuncia di condanna disposta nei casi obbligatori ai sensi dell’art. 240 cpv. c.p.p. ovvero da altre disposizioni speciali.
Ha ritenuto inoltre che l’intervenuto proscioglimento per prescrizione non abbia potuto incidere sulla confisca, non essendo esso sufficiente, secondo un orientamento consolidato, ad interrompere il rapporto tra la cosa e il reato una volta accertata la ricorrenza degli elementi costitutivi della fattispecie di reato presupposta.
L’art. 517 ter c.p. consta di due fattispecie distinte previste dai commi 1 e 2, aventi ad oggetto, la prima: la condotta di chi fabbrica o adopera industrialmente oggetti o altri beni realizzati usurpando un titolo di proprietà industriale o in violazione dello stesso, la seconda il comportamento di chi, ai fini di profitto, introduce nel territorio dello Stato, detiene o pone in vendita con offerta diretta ai consumatori o mette comunque in circolazione i beni di cui al primo comma.
Il bene giuridico tutelato è individuato nel diritto di monopolio dell'invenzione da parte del titolare del brevetto, nonché nel diritto di sfruttamento economico dell'opera dell'ingegno da parte dello stesso.
Pertanto, ritiene la Corte, che l’art. 517 ter c.p. si riferisca non solo all’ipotesi di prodotti realizzati ad imitazione di quelli protetti dal titolo di proprietà, ma anche alla fabbricazione, utilizzazione e vendita di prodotti originali da parte di chi non ne è titolato.
Tornando al caso in esame, l’imputato, pur in possesso di legittimi titoli per la fabbricazione dei prodotti originali, era vincolato alla distribuzione degli stessi in determinati Paesi europei, non avendo titolo per la distribuzione in Italia, di fatto esorbitando dal contratto e perciò incorrendo nella c.d. "contraffazione territoriale" punita dall’art. 517 ter c.p.
La Corte di Cassazione Sez. I Penale
Sent. Num. 7940
Anno 2020
Presidente: IASILLO ADRIANO
Relatore: CENTONZE ALESSANDRO
Data Udienza: 12/12/2019
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
1) C.S., nata a XX il XX/XX/XXXX;
Avverso il decreto emesso il 23/05/2019 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Brescia;
Lette le conclusioni del Sostituto Procuratore generale Giovanni Di Leo, che ha chiesto il rigetto del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
1. Con l'ordinanza in epigrafe il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Brescia respingeva l'opposizione proposta avverso il provvedimento di confisca emesso dallo stesso Giudice il 14/11/2018, per inquadrare il quale occorre ricostruire la sequenza procedimentale in cui tale atto si inseriva.
Occorre premettere che il 22/12/2012 la Guardia di Finanza di Chiari, su denuncia del procuratore generale della società P.C. s.a.r.I., sequestrava 103 bancali contenenti 358.988 pezzi di confezionamento e 281.552 paia di calze, recanti il marchio "P.C.", giacenti presso il deposito commerciale dell'azienda B.I. s.r.I., con sede legale a B., in Via XX n. X/X, della quale S.C. era la titolare.
All'esito del procedimento conseguentemente attivato nei confronti di S.C., il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Brescia, su conforme richiesta della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Brescia, disponeva l'archiviazione della posizione dell'indagata con provvedimento del 14/11/2018, ordinando la confisca dei beni sottoposti a sequestro ex art. 474-bis cod. pen., sul presupposto che la disponibilità della merce sequestrata derivava dalla commissione del reato di cui all'art. 517 -ter cod. pen.
A tale provvedimento faceva seguito l'opposizione presentata da S.C. il 14/02/2019, che veniva respinta dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Brescia con ordinanza emessa il 21/05/2019, della cui legittimità si controverte in questa sede.
Il rigetto dell'opposizione veniva pronunciato sull'assunto che la restituzione della merce sequestrata non era consentita, atteso che i beni erano stati posti in commercio in violazione dell'art. 517 -ter cod. pen., con la conseguenza che dovevano ritenersi confiscabili ex art. 240, comma secondo, cod. pen., nonostante il provvedimento di archiviazione emesso nei confronti di S.C. sopra citato.
2. Avverso tale ordinanza S.C., a mezzo dell'avv. Stefano Paloschi, ricorreva per cassazione, deducendo due motivi di ricorso.
Con il primo motivo, si deduceva la violazione di legge del provvedimento impugnato, in riferimento agli artt. 240, comma secondo, e 474 -bis cod. pen., conseguente al fatto che la tipologia della merce controversa - costituita dai capi di abbigliamento recanti il marchio "P.C." sequestrati dalla Guardia di Finanza di Chiari - non legittimava l'esercizio dei poteri ablatori previsti dall'art. 474-bis cod. pen., essendosi proceduto nei confronti della ricorrente per il reato di cui all'art. 517 -ter cod. pen.
Con il secondo motivo, si deduceva il vizio di motivazione del provvedimento impugnato, conseguente al fatto che la confisca dei beni non poteva essere disposta, per effetto della previsione dell'art. 240, comma secondo, cod. pen., essendo stato il procedimento presupposto archiviato con decreto del 14/11/2018.
A conferma di tale assunto si evidenziava che l'esercizio dei poteri ablatori controversi presupponeva la condanna del soggetto passivo della misura di sicurezza, che non era intervenuta nel caso in esame. Queste ragioni imponevano l'annullamento'dell'ordinanza impugnata.
3. Venivano, infine, depositate memorie difensive nell'interesse delle persone offese dal reato - la società G.P.C. s.a.r.l. e P.C. - che ribadivano, in senso adesivo rispetto al provvedimento impugnato, le ragioni che non consentivano la restituzione della merce contraffatta oggetto dell'originario sequestro. Con tale memoria si evidenziava l'illiceità della commercializzazione dei capi di abbigliamento sequestrati presso il deposito dell'azienda B.I. s.r.I., che era avvenuta in assenza di accordi contrattuali tra la società di S.C. e la società G.P.C. s.a.r.l.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso proposto da S.C. è inammissibile.
2. Deve dichiararsi inammissibile il primo motivo di ricorso, con cui si deduceva la violazione di legge del provvedimento impugnato, in riferimento agli artt. 240, comma secondo, e 474 -bis cod. pen., conseguente al fatto che la tipologia della merce controversa - costituita dai capi di abbigliamento recanti il marchio "P.C." sequestrati dalla Guardia di Finanza di Chiari - non legittimava l'esercizio dei poteri ablatori attivati dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Brescia, essendosi proceduto nei confronti della ricorrente per il reato di cui all'art. 517 -ter cod. pen.
Osserva il Collegio che l'assunto difensivo, secondo cui lo strumento previsto dall'art. 474 -bis cod. pen. non era applicabile al caso in esame, risulta destituito di fondamento sistematico, per effetto del richiamo testuale di tale disposizione contenuto nel terzo comma dell'art. 517 -ter, a tenore del quale: «Si applicano le disposizioni di cui agli articoli 474 -bis, 474 -ter, secondo commo, e 517 -bis, secondo comma».
Esclusa, pertanto, la sussistenza di elementi ostativi all'applicazione del combinato disposto degli artt. 474-bis e 517 -ter cod. pen., occorre verificare se le condotte illecite presupposte possano essere ricondotte alla fattispecie dell'art. 517 -ter cod, pen., rubricato "Fabbricazione e commercio di beni realizzati usurpando titoli di proprietà industriale".
A tale quesito occorre fornire risposta positiva.
Deve, in proposito, rilevarsi che sotto la rubrica in questione confluiscono due distinte fattispecie, contenute, rispettivamente, nel primo e nel secondo comma dell'art. 517 -ter cod. pen.
La prima ha per oggetto la condotta di chi fabbrica o adopera industrialmente oggetti o altri beni realizzati "usurpando un titolo di proprietà industriale o in violazione dello stesso", pur potendo conoscere dell'esistenza del suddetto titolo.
La seconda, ha per oggetto il comportamento di chi, al fine di trarne profitto, introduce nel territorio dello Stato, detiene per la vendita, pone in vendita "con offerta diretta ai consumatori" o mette comunque in circolazione i beni descritti nel primo comma.
Ne discende che la fattispecie dell'art. 517-ter cod. pen. si riferisce non solo all'ipotesi di prodotti realizzati a imitazione di quelli protetti dal titolo di proprietà industriale e quindi in violazione del medesimo, ma anche a quella della fabbricazione, dell'utilizzazione e della vendita di prodotti originali, da parte del soggetto che non ne sarebbe titolato. Sul punto, non si può che richiamare giurisprudenza di questa Corte, secondo cui: «In materia di delitto di fabbricazione e commercio di beni realizzati usurpando titoli di proprietà industriale, la condotta di "violazione" del titolo di privativa è integrata non soltanto con la fabbricazione di merci realizzata carpendo l'idea originale insita nel titolo, ma, altresì, con l'imitazione dei prodotti protetti dalla privativa, anche utilizzando segni distintivi autentici» (Sez. 3, n. 8653 del 19/11/2015, dep. 2016, Russo, Rv. 266219-01). Questo ambito applicativo dell'art. 517 -ter cod. pen., cui si riferisce correttamente il provvedimento impugnato, impone di affermare la confiscabilità della merce in esame — riguardante 103 bancali contenenti 358.988 pezzi di confezionamento e 281.552 paia di calze, recanti il marchio "P.C." dovendosi ribadire la possibilità di esercitare i poteri ablatori di cui all'art. 474- bis cod. pen. sia nei confronti di beni oggetto di contraffazione sia nei confronti di beni che, pur non essendo contraffatti, come nel caso di specie, sono messi in commercio da un soggetto sprovvisto della legittimazione a distribuirli.
Ne discende che laddove, analogamente a quanto riscontrato nel caso in esame, la merce, pur non essendo contraffatta, risulta posta in commercio in violazione degli accordi assunti tra il fabbricante e il distributore dei beni, è certamente configurabile la fattispecie di reato di cui all'art. 517 -ter cod. pen., in conseguenza della quale possono essere attivati i poteri ablatori previsti dall'art. 474 -bis cod. pen.
Né è dubitabile che la commercializzazione della merce sequestrata presso il deposito dell'azienda B.I. s.r.l. avvenisse in assenza di accordi con la società produttrice dei capi di abbigliamento, che non aveva autorizzato la produzione dei beni e la loro distribuzione sul territorio italiano da parte della ditta della ricorrente, che operava - e il punto non è controverso - al di fuori dei limiti negoziali pattuiti con la società G.P.C. s.a.r.l.
Queste ragioni impongono di ribadire l'inammissibilità del primo motivo di ricorso.
3. Parimenti inammissibile deve ritenersi il secondo motivo di ricorso, con cui si deduceva il vizio di motivazione del provvedimento impugnato, conseguente al fatto che, nel caso in esame, la confisca dei beni non poteva essere disposta, per effetto della previsione dell'art. 240, comma secondo, cod. pen., essendo stato il procedimento presupposto, iscritto nei confronti di S.C., archiviato con decreto emesso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Brescia il 14/11/2018.
Osserva il Collegio che costituisce espressione di un orientamento ermeneutico consolidato il principio secondo cui, in assenza di una pronuncia condannatoria, la confisca dei beni posti sotto sequestro può essere disposta nelle sole ipotesi in cui sia obbligatoriamente prevista dall'art. 240, comma secondo, cod. pen. ovvero da altre disposizioni speciali.
Sul punto, è sufficiente richiamare il seguente principio di diritto: «In assenza di condanna la confisca può essere disposta solo nelle ipotesi in cui essa sia obbligatoriamente prevista dall'art. 240 comma secondo cod. proc. pen. o da altre disposizioni speciali» (Sez. 1, n. 45980 del 07/11/2012, Bignami, Rv. 254522-01; si veda in senso sostanzialmente conforme, anche Sez. 1, n. 2453 del 04/12/2008, dep. 2009, Rv. 243027-01).
Al contempo, la confisca obbligatoria, nei casi previsti dall'art. 240, comma secondo, cod. pen. o da altre disposizioni speciali, può essere disposta quando il procedimento si concluda con una pronuncia assolutoria o con il proscioglimento dell'indagato per cause che non incidono sulla materialità del fatto e non interrompono il rapporto tra il bene su cui vengono esercitati i poteri ablatori e il soggetto attivo del reato. Ad analoghe conclusioni deve giungersi per le ipotesi in cui le indagini disposte dal pubblico ministero si concludono con un provvedimento di archiviazione per insussistenza delle condizioni per procedere nei confronti dell'indagato in sede dibattimentale (Sez. 1, n. 48673 del 23/09/2015, Frigo Hellas Company Ltd, Rv. 265426-01; Sez. 3, n. 28508 del 04/06/2009, Vedani, Rv. 244780-01).
Ne discende che, nel caso di specie, risultando accertata la ricorrenza degli elementi costitutivi del reato di cui all'art. 517 -ter cod. pen., è certamente legittima la confisca della merce sequestrata dalla Guardia di Finanza di Chiari presso il deposito commerciale della ricorrente, pur in presenza di un provvedimento di archiviazione della sua posizione, per effetto del combinato disposto degli artt. 240, comma secondo, e 474 -bis cod. pen., correttamente applicati dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Brescia. Queste ragioni impongono di ribadire l'inammissibilità del secondo motivo di ricorso.
4. Per queste ragioni, il ricorso proposto da S.C. deve essere dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e, non ricorrendo ipotesi di esonero, al versamento di una somma alla cassa delle ammende, determinabile in tremila euro, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali
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